Dennis Mantovani © – Instanbul 2019

 

Note sull’autore

Un incontro virtuale con Dennis Mantovani, che è un giovane fotoreporter italiano. Lo è per passione, ma sogna di diventarlo per mestiere. Leva 1991 e nato a Savona, ha abbandonato l’università per arruolarsi ed entrare in Marina Militare. Dopodiché ha continuato a studiare e a specializzarsi. Ora è idrografo, crea carte nautiche. È anche operatore subacqueo.

Ma l’irrequietezza che lo rendeva insoddisfatto a lavoro, specializzandosi, non è passata. L’unico rimedio è stata la fotografia, che adesso è diventata parte fondamentale della sua vita. Non appena le circostanze glielo permettono, prende e parte in una città a caso, e lì vi si perde, finché non è fotograficamente soddisfatto. Poi torna a casa.

Come ti sei avvicinato alla fotografia? E, in particolare, al reportage?

Alla fotografia ho approcciato per errore. Durante l’estate del 2015, navigando per lavoro, ho dovuto pensare ad un escamotage per non soffocare. Non è che il mio mestiere non mi piaccia, ma non è abbastanza. E dunque ho pensato che se avessi incominciato, oltre che a lavorare, a fare il giullare di bordo, il tempo sarebbe trascorso più velocemente, sia per me che per i miei colleghi. E allora acquistai una reflex, con l’intenzione di girare e montare qualche video ironico. La cosa uscì bene, e i miei video furono trasmessi a fine navigazione col proiettore, davanti a tutto l’equipaggio, compreso l’alto Comando. Pareva di essere a Zelig. Li girai con una reflex entry level, consigliatami dal mio intimo amico Omar, a detta sua un ottimo compromesso per cominciare.

L’esperienza fu divertente e gratificante, ma non migliorò la mia condizione. Anche a casa soffocavo, ed ero alla ricerca di un escamotage per fare fronte a questo problema, e il mondo dei video non faceva per me, non lo sentivo mio. Quantomeno, compresi che la direzione in cui dovevo cercare era quella della creatività. Adesso, sentivo chiaramente il bisogno di creare qualcosa. Sentivo in me l’esigenza di trovare un mezzo attraverso il quale esprimere il mio malessere. Ma non solo il malessere: le mie emozioni e i miei sentimenti, in generale. Sentimenti che per qualche inconscio motivo non riuscivo a tirar fuori. Ma creare cosa? E quale mezzo? Non ne avevo la più pallida idea.

Dennis Mantovani © – Instanbul 2019

 

I mesi successivi, a tempo perso, provai a utilizzare la reflex anche per scattare, e mi accorsi che forse la fotografia faceva al caso mio. Dedicai circa un mese a sperimentare come funzionasse. Mi piazzavo col cavalletto in sala, facendo tutti gli esperimenti del caso, aprendo e chiudendo i cassetti per giocare con i tempi, avvicinandomi e allontanandomi dagli oggetti per sperimentare con il diaframma, insomma, le solite cose. Poi presi a girare per le terre che amo e dove lavoro, quando non navigo. Ovvero, nel savonese e nei dintorni di La Spezia. Le Cinque Terre, Tellaro, Lerici, bellissimi posti. Finché c’era da farsi la mano, la gratificazione arrivava. Respiravo! Tornavo a lavoro sereno, pronto a sopportare mansioni e colleghi. Anzi, ne avevo ancora da dare! Ma una volta che la mano fu fatta, niente, pure la fotografia incominciò ad annoiarmi. Belle le foto che scattavo, sì. Ma banali. I soliti paesaggi fiabeschi. Le solite personcine felici. I soliti gabbiani. E così ancora una volta mi convinsi che ciò che andavo cercando non era raggiungibile attraverso il mezzo che avevo tra le mani. Lasciai perdere la fotografia.

Poi un giorno un amico (sempre Omar) mi telefonò pregandomi di convincerlo a non comprare una mirrorless, una fujifilm x100s. A lui di certo i mezzi per fotografare non mancavano (lo fa per mestiere). Era più uno sfizio, il suo. Per cui puntò sul mio buon senso, sperando che l’aiutassi a desistere. Beh, successe che la comprai ancor prima di lui, questa mirrorless. E da lì incominciai a fare sul serio. Questa macchina era davvero minuscola, stava in tasca. Perciò provai a sperimentare nuove esperienze, come infiltrarmi tra la gente, osservarla e immortalarla. Avevo sempre desiderato farlo, ma con quell’affarone appeso al collo non ne ho mai avuto il coraggio. Adesso lo avevo. E poi fallo uno, due, tre, cento volte, e ti smalizi, no?

E dunque approcciai il mondo del reportage, e da lì non ne uscii più. Ho trovato la strada giusta per “spacchettare” il mio cervello.

Dennis Mantovani © – Beirut  2018

 

Qual è il tuo approccio alla fotografia?

Viscerale. Innanzitutto, scelgo la città che in quel momento più mi affascina. Magari perché ne ho sentito parlare dai protagonisti di un romanzo che ho letto in quei giorni. Oppure da un amico, o da un telegiornale. Ad ogni modo, succede che quella città mi strega, e non trovo pace finché non andrò a visitarla. La storia poi è sempre la stessa: prenoto in un ostello per 4 o 5 notti, e poi parto. La mia è una fotografia dinamica e sempre in movimento. E maggiore è la soggezione che provo nel recarmi solo in quel luogo, più intensa sarà il mio desiderio di fotografare. È come se dovessi riscattarmi dalle mie insicurezze attraverso la creatività.

Per cui, dormire in un ostello in mezzo ad altra gente, in una città che non conosco, dove si parla una lingua che non comprendo, è per me l’ambiente più fecondo: se hai bisogno di affetto, di considerazione, e sei solo, soltanto la città può dartene. Per riceverne devi capirla, devi sentirla tua. E la macchina fotografica è un mezzo come altri per arrivare a tanto.

Dennis Mantovani © – Beirut 2019

 

Prima familiarizzo con le mura della città, poi coi suoi abitanti, perché pure loro vi appartengono. La città li segna. E questo lo si capisce dai loro modi di fare, dalle loro espressioni.

Spesso cammino diversi km al giorno, guidato dalla curiosità e dall’irrequietezza. A volte dall’imbarazzo e dalla vergogna. Non sempre le cose vanno come vorrei che andassero. Ma poi, non appena m’imbatto in un individuo bizzarro o in una vista particolare, la curiosità mi pervade, e improvvisamente mi sento a mio agio. Sicuro di me. Piuttosto di realizzare lo scatto che ho immaginato mi farei ammazzare, giuro. In quella frazione di secondi mi sento immortale.

Dunque prendo la mira, e scatto. E dopo una serie di scatti simili, partoriti per l’appunto da un’esigenza viscerale, incomincio a sentirmi a casa. E quando sono del tutto ambientato, è giunta l’ora di tornare in patria e di pensare alla città successiva. Ho esaurito l’ispirazione. Quantomeno, questo tipo d’ispirazione – che è quello che ad ora vado cercando.

Dennis Mantovani © – Instanbul 2019

 

Quali sono i tuoi riferimenti culturali e fotografici?

Potrà sembrare strano, ma i miei riferimenti sono più letterali che fotografici. Amo leggere. Insomma, non potendo sempre fotografare, l’unica alternativa che ho per far fronte a questa sorta di disagio esistenziale che provo – e che mi schiaccia – è leggere.

Il mondo in cui viviamo, per molti aspetti, non mi piace. Mi pare assurdo. I libri alimentano il mio desiderio di comprendere questa assurdità; e la fotografia è uno strumento col quale provo a dare forma ai miei pensieri. Non l’unico: scrivo, anche.

Anzi, fotografo e scrivo, non riesco a separare le due cose. Quando cammino per una città sconosciuta e un pensiero mi passa nella mente, la mirrorless finisce nel borsello, e prendo al volo il cellulare, salvando una nota. Questa poi diventerà parte di un testo, che probabilmente affiancherà qualche immagine, facendole da cornice. Gli scrittori che mi capiscono e che mi danno la carica di fare quel che faccio sono Celine, Camus, Sartre, Svevo, Bukowski, potrei continuare per un po’. Ci sono ovviamente anche dei fotografi che mi illuminano. Tra tutti, Robert Capa. Leggere “Leggermente fuori fuoco” e ammirarne le immagini è stato un vero e proprio godimento. Quell’uomo era mosso da una curiosità, da un’irrequietezza tale da farmi sentire un pantofolaio rammollito, ogniqualvolta penso a lui. Pensare a lui e alle sue foto alimenta il fuoco che c’è in me, che sarebbe in ciascuno di noi. Quel fuoco che tutti s’impegnano tanto a spegnere – perché ok, scalda, ma il più delle volte brucia. Un altro punto di riferimento nel campo della fotografia è Sebastiao Salgado. Ho consumato “il Sale della Terra”, il documentario che parla della sua vita. Le immagini sono ovviamente bellissime, ma soprattutto amo la sua ispirazione. Basta guardarlo in faccia per un paio di secondi per comprendere che si alimenta di arte.

Vedete? Più che la fotografia in sé, a darmi la voglia di fotografare sono le personalità che vivono di creatività.

Dennis Mantovani © – Baalbek 2018

 

Quali sono i temi che tratti di più?

Come dicevo prima, ciò che mi interessa documentare è il disagio esistenziale. Un sentimento che è possibile cogliere nei nostri volti quando abbassiamo le difese, o quando pensiamo di non essere visti. Quando ci concediamo una pausa. Solo allora, si vede come ci sentiamo realmente. Vado a caccia di individui che si appoggiano ad un muretto e si fumano una sigaretta. O seduti al pub, di notte, davanti ad un boccale. Preferibilmente soli. Di ragazzi e ragazze sfatti, in discoteca, accasciati sui divanetti, che si domandano “perché sono qui?”. Che si sentono stupidi, inutili. Per questi motivi, di notte mi muovo meglio che di giorno. Poi adoro fotografare i riflessi, immaginandomi che quella sagoma distorta e sfocata, tutto sommato, sia più sincera di quell’altra in piedi, rigida e retta. Questo per quanto riguarda le persone.

E per quanto riguarda la città, potrei ripetere le stesse cose: attirano la mia attenzione quelle prospettive in cui non si capisce niente, è tutto incastrato, un vero e proprio caos. Ma nel contempo le geometrie tornano, sembrerebbe tutto in ordine. Ecco: se “disagio esistenziale” suona male come tema fotografico, potrei rinominarlo “assurdità”. Vado a caccia di persone, cose e città assurde, dove gli opposti s’incontrano senza abbracciarsi, senza comprendersi. Dove cozzano, generando fastidio e confusione. Ma nel contempo queste immagini, se ben riuscite, attraggono. Perché rispecchiano la società in cui viviamo, anche se non lo vogliamo ammettere. È sempre così, ciò che nascondiamo a noi stessi ha un’incredibile forza attrattiva.

Dennis Mantovani © – Amsterdam 2020

 

Le mie foto parlano delle città e delle persone, come spesso si fa nell’urban photography. Una domanda che mi pongo spesso è cosa potrebbe differenziare le mie immagini dalle foto di altri fotoreporter? Ho difficoltà a risponderti perché, come ti ho detto, la fotografia per me è una questione viscerale; quindi per lo più incomprensibile. Vado in quelle città proprio per questo motivo, per esorcizzare qualcosa. Potrei andare dallo psicologo per tentare di comprendere cosa ci sia nel mio inconscio che non va, e invece me ne vado in quella città che non conosco a caccia di scatti. E funziona! Perché col tempo sono migliorato, sto meglio. Inizialmente fotografavo soltanto in questo mood, come dire, catartico. Ma col tempo, una cosa di me e dei miei pensieri sono giunto a capirla: odio la società in cui viviamo. Ne provo un sincero disgusto, e seguendo l’istinto fotografico, ho compreso che è proprio quel disgusto che vado cercando, e che vorrei documentare. L’odio che provo (o amore non corrisposto, forse), è il mio motore. Non mi interessano foto scabrose, individui deformi, o rovine. Mi interessano tutti quanti, ma in particolari momenti della loro giornata, o della loro vita.

Coloro che attirano la mia attenzione sono individui che, momentaneamente, si tolgono la maschera. Si rilassano. E quando si rilassano ecco cosa traspare: fastidio. Sì, sono tutti spossati, rassegnati, indifferenti. Demoralizzati. Ma come ciascuno di noi sa, apparire demoralizzati porta meno like. E se non hai abbastanza like, oggi, magari non vieni considerato da nessuno, a prescindere da ciò che hai da dire. Ormai il mondo virtuale mi sembra più concreto di quello reale. E a me questo non piace. Quindi, per dare voce a ciò che provo, vado alla ricerca di immagini che rappresentino questo sentimento.

Dennis Mantovani © – Beirut 2019

 

Da fotoreporter, qual è il tuo coinvolgimento nelle tematiche sociali?

Nel senso più stretto del termine, non mi sento socialmente coinvolto. Se devo immaginare qualcosa che riguardi il sociale ripeterei ancora che tento di rappresentare, come dicevo, il mood in cui la maggior parte di noi vive. Di documentare i nostri desideri, quelli più autentici. Il risultato è spesso qualcosa d’insolito e di sospetto, ma questa non è la mia intenzione: insolita e sospetta è la realtà. Cerco di dimostrare che oggi può essere interessante anche soffermarsi su un muratore accasciato su una panca in pausa pranzo. Allo stesso modo di una donna bella e ben vestita, intenta a far shopping e a girare storie con lo smartphone. Perché è così, non ci sono dubbi.

Il reportage è un tema dove le immagini riportano la realtà quanto tale, come si integra la creatività in questo contesto desueto?

Credo che la creatività sia il mezzo che abbiamo per rivelare la sostanza delle cose. E così, come lo scienziato deve essere creativo per cogliere una nuova legge fisica, l’artista deve esserlo per cogliere i sentimenti che le genti celano. L’artista è lo psicologo delle masse, e la creatività è il suo modo di fare psicoanalisi.

Il risultato della creatività, quando funziona, è la realizzazione di qualcosa di interessante. Di coinvolgente. E soprattutto di utile, perché più siamo consci di cosa ci circonda e di chi siamo, meglio vivremo. Oddio, parola grossa “meglio”. Più consapevolmente.

Parlando del reportage, questo ha un buon potenziale creativo se ti invita a riflettere e a farti domande. Perché quel tipo m’incuriosisce? Ciò che dico è facilmente riscontrabile nei reportage di guerra. È impossibile non chiedersi: perché quel bambino si trova nudo, in mezzo ad una strada, tra altri bambini e soldati, e piange? Perché alle sue spalle ci sono fiamme ed esplosioni? È palesemente il reduce di un bombardamento. Chi ha bombardato chi? E dove? Che fine avrà fatto quel bambino?

Ok. Se una foto di città – apparentemente inutile – ti spinge a farti delle domande, allora ci siamo: l’hai scattata con un occhio creativo. Se indagherai sul perché ti incuriosisce, comprenderai nuovi aspetti della realtà che ignoravi.

Dennis Mantovani © – Parigi 2019

 

Quali sono i tuoi progetti futuri? 

Ad ora mi sono limitato a esplorare l’Europa (e anche il Libano, per lavoro). Vorrei andare in giro a documentare il “disagio” anche negli altri continenti. Americani, asiatici, africani e australiani: saranno tormentati alla nostra maniera? Sarei curioso di scoprirlo. E poi, vorrei esplorare il mondo della fotografia astratta. I riflessi e la notte mi attirano profondamente, a prescindere dagli individui che la vivono, ed il perché di questo non mi è ancora chiaro. Indagherò.

Dennis Mantovani © – Parigi 2019

 

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Federica Delprino e Omar Tonella